Se è vero che le guerre del XXI secolo si faranno soprattutto per il controllo delle risorse idriche, la vicenda del lago Aral ne rappresenta certo il prototipo.
Quasi prosciugato in poco più di un ventennio per irrigare le monocolture intensive di cotone, sono rimasti al suo posto dune di sabbia avvelenata dal sale e dai pesticidi, relitti arrugginiti di barche, clima più rigido e arido e un’economia locale completamente annientata. Il paese di Moynak, un tempo florido centro della pesca e della lavorazione ittica, è ora un malinconico avamposto del deserto, percorso da mulinelli di polvere. I tiepidi tentativi di correre ai ripari sono ostacolati dal bisogno d’acqua dei paesi confinanti e dalla scoperta di giacimenti nel sottosuolo, che rendono ben poco interessante il già proibitivo ripristino dell’ecosistema.
Mi aggiro ammutolita in questo luogo da day after; eppure, appena mi avvicino a ciò che resta del lago, la sua bellezza mi colpisce e mi fa sperare che possa uscire vincitore da questa guerra insensata