Il Sudan non è esattamente un’icona turistica internazionale.
Certo il presidente Al-Bashir, condannato dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità, sospettato di connessione con le reti terroristiche islamiche, non è una figura accattivante; ma soprattutto il ventennale conflitto nel Darfur, che insanguina la parte occidentale del paese, sempre più desertificata ma seduta su enormi laghi di petrolio, probabilmente spaventa il viaggiatore meno scafato. Eppure le problematiche etiche né la guerra civile hanno mai scoraggiato i turisti da altre mete: semplicemente, in genere ci si tiene prudentemente alla larga dalle zone calde e si trova qualche giustificazione più o meno valida al proprio disagio, ammesso che ci sia.
Credo piuttosto che i tesori del Sudan siano trascurati per primi dagli stessi sudanesi e che non sia mai stato fatto un tentativo serio di valorizzarli come meritano e di proporli all’attenzione internazionale.
Una situazione che tuttavia offre ai rari visitatori dei veri privilegi: la sensazione di essere gli scopritori di meraviglie dimenticate, impavidi esploratori della Storia depositari di segreti millenari. Perlomeno, così mi sento quando arrivo in mezzo alla necropoli di Meroe, la maggior concentrazione di piramidi del mondo, sparse sulla sabbia arancione come pezzi di cioccolata sulla crema. Qualche beduino a dorso di cammello e per il resto solo noi a godere del tramonto e del nascere della luna piena; lusso supremo, le tende piantate su una duna nel silenzio del deserto. Per tutto il viaggio rivivremo emozioni analoghe: siti archeologici splendidi e abbandonati, dimenticati come l’immensa potenza dell’impero nubiano, monito della caducità del potere ma anche della capacità imperitura di emozionare che appartiene all’arte.
Sullo sfondo il Nilo, costeggiato da campi verde smeraldo: oasi abitate da genti cordiali, curiose ed ospitali verso lo straniero, dove ci sentiamo a casa, accolti come amici e fratelli.