È per me impossibile visitare il Rwanda come un qualsiasi altro paese. Troppo gravi e troppo recenti le ferite del genocidio perché si possa solo godere della bellezza delle sue “mille colline” e dei tutelatissimi gorilla di montagna. Le chiese e le scuole profanate dai massacri sono trasformate in musei dell’orrore, dove i corpi riesumati dalle fosse comuni non richiedono parole di commento. Una sopravvissuta hutu mi racconta di aver visto uccidere marito e figli tutsi, e ora, incapace di staccarsi dal luogo, consacra la sua vita all’unico e ultimo scopo della testimonianza. Mi mostra gli accampamenti dei soldati francesi e il campo delle loro partite a pallavolo mentre era in corso la strage. Al museo di Kigali firmo e aggiungo al registro il mio “nevermore”, ma i campi profughi e i camion dell’UNHCR pieni di congolesi mi dicono già che la tragedia è solo spostata poco oltre.
Poi incontro un matrimonio lungo la strada e scopro sul capo dello sposo la cicatrice del machete che non è riuscito ad ucciderlo, quasi vent’anni prima. Mi sembra che i suoi occhi siano ancora pieni di orrore e tristezza: la bella sposa al suo fianco, però, mi fa sperare che non sia del tutto impossibile ricominciare a vivere.