Le culture nomadi mi hanno sempre affascinata. Non essere legati a un solo luogo ma appartenere a tutti, limitare vita e possessi all’essenzialità più rigorosa, non conoscere frontiere né confini sono per me il miraggio di un mondo ideale. In realtà la vera vita dei nomadi è dura e spietata, legata ai capricci del clima e condizionata dal benessere degli animali, loro unico capitale.
Nel Tibet orientale il nomadismo sopravvive a stento, fra ostacoli politici e le tentazioni della modernità. Eppure quando li incontro mi sembrano l’espressione della gioia di vivere. Le donne cantano mungendo gli yak; bimbi si rincorrono nei prati mentre sorvegliano un gregge di pecore; anziane monache recitano una puja e si interrompono spesso con sonore risate. Mi accolgono con piacere nelle loro tende e cerchiamo a gesti quella conversazione che la mancanza di una lingua comune ci impedisce.
Non sono più quelli che ha conosciuto la grande viaggiatrice Alexandra David-Nèel; viaggiano in moto e in fuoristrada, comunicano con il cellulare e i figli vanno a scuola, trasferendosi ai pascoli solo per le vacanze estive. Mi sembra però che non sia cambiato il loro spirito allegro e ospitale e nella mia anima di nomade frustrata mi auguro che conservino la loro repulsione per i muri di pietra e il loro amore per la libertà.