In Tibet la religiosità impregna ogni aspetto della vita quotidiana e ogni azione viene compiuta considerandone il merito karmico. Esistono quindi mestieri più ambiti, perché permettono di avvicinarsi al premio supremo, l’illuminazione o almeno una rinascita favorevole.
Fra questi, quelli che contribuiscono a diffondere la parola del Buddha sono i più sacri. Nell’antica stamperia di Dergè da secoli si riproducono i testi che raggiungeranno università monastiche e sperduti conventi himalayani. Lavorare qui è una meditazione ininterrotta: tutti eseguono il proprio compito con profonda concentrazione, sentendosi responsabili della corretta trasmissione del dharma, cercando di meritare il privilegio di cui dispongono. Ritrovo la stessa gioiosa serietà nel ragazzino che scolpisce muri mani, le pietre con le lettere sacre; negli artigiani che decorano e restaurano i monasteri; nei fabbri bambini, all’opera in un buio stanzino dal quale emergono fantastici bassorilievi di dei e dragoni.
Ma non posso accettare il lavoro minorile. Da occidentale, penso che i bambini debbano giocare e andare a scuola. Vorrei sapere se hanno scelto o sono stati costretti da tradizioni familiari o dalla povertà. Vorrei capire se sono fieri di ciò che fanno o sono solo piccoli schiavi. Però non sono così sicura che i miei parametri siano una verità universale; me ne vado, sconfitta dalla barriera linguistica, con tanti dubbi e nessuna certezza.