Mi sono chiesta spesso per quale motivo mi appassionano tanto le immersioni sui relitti. Credo che sia in parte perché è come sbirciare in una finestra sul passato; poter vedere delle specie di Pompei sottomarine, in cui la vita è stata congelata in pochi, drammatici ultimi istanti. Poi c’è una certa componente avventurosa: si tratta di immersioni spesso impegnative, per le profondità o per le penetrazioni, che esigono concentrazione e spremono adrenalina. Ma forse più di tutto mi emoziona vedere come il mare si impossessi di queste strutture e le trasformi in organismi viventi; come da cannoni e mitragliatrici nascano spugne e coralli, come cimiteri sommersi diventino le case di creature marine.
Quella che attualmente è la destinazione più ambita per le wreck dives, la laguna di Truk, nello stato micronesiano di Chuuk, è stata teatro di uno dei tanti episodi tragici della II guerra mondiale. Queste isole poco conosciute erano da tempo occupate dai giapponesi, che le consideravano un riparo sicuro per la flotta, ammassata per questo nella laguna, dotata di pochi accessi fortificati e ben sorvegliati. Il nascondiglio venne però scoperto dall’aviazione americana, che in un attacco massiccio di soli tre giorni, a partire dal 17 febbraio 1944, affondò oltre quaranta navi durante quella che fu denominata “Operazione Hailstone” causando perdite umane devastanti anche a causa della carestia che seguì ai bombardamenti.
Mi sembra che ancora adesso aleggi sul luogo un sinistro sapore di morte. La laguna non è particolarmente attraente e non ha nulla che evochi l’icona delle isole incantate del Pacifico: non ci sono spiagge, il cielo è quasi sempre cupo, il clima piovoso e il mare spesso agitato.
Mi tornano alla memoria le immagini drammatiche dei filmati dell’epoca, ancora più impressionanti perché qui il tempo sembra essersi fermato: in pratica non ci sono costruzioni moderne, nel porto sono attraccate navi che sembrano coetanee dei relitti, le strade sono malconce come se fossero appena state bombardate. In definitiva, non ci sono molte ragioni per venirci in vacanza, se non si mette il naso sott’acqua.
Le immersioni però sono straordinarie.
A profondità fra i 25 e i 65 metri si trovano oltre quaranta relitti in superbo stato di conservazione, in gran parte esplorabili internamente, completi di ogni genere di struttura, da quelle militari ai motori agli oggetti della vita quotidiana.
La fauna marina è piuttosto povera, considerando che ci troviamo in un mare tropicale. Mi chiedo se sia conseguenza di una pesca indiscriminata o dell’inquinamento che carburanti e materiale bellico hanno sicuramente provocato in un ecosistema abbastanza chiuso come quello della laguna. Anche questo contribuisce rendere spettrale l’atmosfera, come se perfino i pesci volessero rispettare la sacralità del cimitero sommerso.
Invece coralli, alcionari e spugne hanno trovato un ambiente ideale e incrostano le superfici delle strutture di colori spettacolari. Un esempio fra i tanti, la Shinkoku Maru, grande nave in assetto di navigazione completamente ricoperta da gorgonie, crinoidi, anemoni, fra i quali spuntano resti umani ancora identificabili, utensili di cucina e munizioni varie.
Il relitto più celebre per i subacquei tecnici è certo la San Francisco Maru, anche questa in assetto di navigazione; a una profondità abbastanza impegnativa fra i 50 e i 60 metri, è quasi intatta e dotata di tre carri armati, camion, automobili, stive piene di esplosivi e proiettili e di un magnifico cannone di prua.
A profondità ricreative e altrettanto splendide la Fujikawa Maru, attraversabile completamente in penetrazione, contenente la fusoliera di un aereo “Zero fighter” e ricchissima di concrezioni coralline; la Hoki Maru, considerata l’area di parcheggio sottomarina perché contiene camionette, trattori e perfino un bulldozer ; la Shotan Maru, con meravigliosi interni pieni di oggetti d’arredamento e utensili raffinati.
Imperdibili ma più profonde la Nippo Maru, con il fondo a 50 mt, con un carro armato, materiale bellico di vario genere ma anche teiere decorate; la Aikoku Maru, fondo a 64 metri, la cui prua è completamente distrutta ma che per il resto è ben conservata. Qui solo a chi possiede un brevetto “Cave” è consentita la penetrazione della sala motori, estremamente impegnativa anche dal punto di vista emozionale perché si accede a zone da cui i resti umani non sono stati mai recuperati.
Alla stessa profondità la Amagisan Maru, praticamente intatta, piena di veicoli ma anche di vita marina; la Nagano Maru, anch’essa con un camion nella stiva in splendido stato, oltre a bussole, argani e maniche a vento coloratissimi e infine l’Oite Destroyer, spaccata in due tronconi con la prua capovolta e la poppa in assetto di navigazione; nata fin dall’inizio come nave da guerra, possiede numerosi cannoni, lanciarazzi e mitragliatrici molto suggestivi ma è purtroppo disseminata di teschi e altre ossa umane. Qui ho però incontrato una tartaruga gigante, tonni e un grande branco di batfish, come a ricordarmi l’alternanza perpetua di vita e morte.
Riparto da Truk piena di emozioni contrastanti: l’orrore della guerra ancora vivo e vitale, nonostante i molti decenni trascorsi, insieme all’ammirazione per la forza rigenerante del mare; i brividi che ho più volte provato trovandomi in cunicoli e stanze da film del terrore e la meraviglia dei colori e della varietà delle creature marine; bombe e cannoni insieme a delicate porcellane e bottiglie di vino pregiato.
Decisamente, un luogo forte, che può affascinare o inquietare, ma che non può in alcun modo lasciare indifferenti.