Di Ayodhya conoscevo bene le tristi vicende: appassionata da sempre di tutto ciò che riguarda l’India, ne avevo letto in parecchi libri e articoli.
La città, sacra agli indù, fu a loro parere profanata dai conquistatori moghul, che nel XVI secolo costruirono una moschea nel sito considerato tradizionalmente luogo di nascita del dio Rama. Istigato dal partito nazionalista BJP, il secolare malcontento sfociò nel 1992 in una sommossa che portò alla distruzione dell’edificio, causando inoltre migliaia di morti; da allora, la città un tempo fiorente diventò un luogo pericoloso, periodicamente teatro di scontri.
L’occasione di vederla con i miei occhi mi emoziona molto, poiché la considero emblematica delle contraddizioni della storia dell’India. Oltre il fiume il profilo della città appare sontuoso nella sua architettura arabo-indiana, ma appena mi avvicino mi si rivela lo stato di decadenza e abbandono che avvolge ogni cosa. Mi aggiro attonita tra le rovine della moschea, nel terreno coperto, credo intenzionalmente, di sterco, intuendone il passato splendore da un arco superstite. Entro in palazzi dai mosaici incantevoli in completo degrado. Scopro tracce mai cancellate di incendi sui muri delle case. E cerco di capire chi, tra i vecchi sorridenti, gli asceti in meditazione, le affabili persone che incontro per la strada abbia le mani sporche del sangue del proprio vicino di casa, in nome di dei vendicativi e di antichi rancori mai sopiti.