Lontane dalle lunghe ombre della globalizzazione e del libero mercato, esistono ancora microeconomie capaci di offrire esistenze povere ma dignitose. Ne trovo una in Dancalia, fra Etiopia ed Eritrea, basata sul più umile dei minerali: il cloruro di sodio, ossia il semplice sale. Qui, nell’immensa piana in cui il mare prosciugato ha lasciato una crosta profonda fino a tre chilometri, afar locali e tigrini dell’altopiano lavorano a stretto contatto, nonostante le differenze di lingua, religione e mentalità, innescando la filiera che termina in mercati lontani attraverso le leggendarie carovane.
Lavoro massacrante, riverbero del sole che brucia gli occhi e sale che apre ferite nelle mani e nei piedi; ma anche lavoro specializzato, che richiede esperienza e precisione nell’estrarre le grandi lastre per ridurle ad amolé, mattonelle di uguali dimensioni che saranno caricate sui cammelli con gesti identici da secoli. So che fra questi uomini non c’è grande affinità, eppure uniscono i loro sforzi con il comune obiettivo del sostentamento loro e delle famiglie. Mi chiedo con tristezza se finiranno in qualche slum metropolitano quando ruspe e camion estirperanno quest’ultimo residuato di antiche epoche.