All’inizio era stato un ripiego.
Fino all’ultimo avevamo sperato di poter partire per Socotra, nonostante le notizie sempre più preoccupanti che arrivavano sui disordini in Yemen. Poi, dieci giorni prima della data presunta di partenza, la Farnesina aveva emesso la “fatwa” definitiva e a noi “socotrini mancati” non era rimasta altra scelta che disperderci fra varie altre destinazioni. Ci siamo così ritrovati in quattro ai banchi di partenza per Port Sudan, un po’ delusi e mugugnanti, con qualcuno ancora convinto che saremmo potuti partire ugualmente per lo Yemen… Ma il Sudan non tradisce mai e, nonostante una partenza un po’ turbolenta, ci ha poi concesso di esplorare praticamente tutti gli splendidi reefs del Sud in programma. Mare generosissimo, guide eccellenti, compagnia simpatica e ottima cucina hanno dissipato in fretta i nostri residui rimpianti, regalandoci una settimana di emozioni e divertimento almeno pari alle aspettative.
Sudan per me però non è solo subacquea: in Sudan in passato avevo campeggiato alle spettacolari piramidi di Meroe, in una indimenticabile notte di plenilunio; avevo visitato i resti delle città dei Faraoni neri, avevo conosciuto la simpatia e l’ospitalità avvolgente dei popoli nubiani; avevo anche intravisto la desolazione degli sterminati campi profughi intorno a Karthoum, a breve distanza dagli esclusivi quartieri dei potenti.
Soprattutto, avevo fatto la straordinaria esperienza di vivere una giornata al “Salam”, l’ospedale cardiochirurgico di Emergency, nella periferia della capitale. Un ospedale del quale sapevo quasi tutto, a partire dalle polemiche che l’avevano accompagnato fin da quando era solo un’idea nella testa pochi sognatori, convinti che si potesse e dovesse dare anche all’Africa una sanità di altissimo livello e soprattutto gratuita. Impossibile, per quasi tutti; una cattedrale nel deserto, qualcosa che non avrebbe mai funzionato, un inutile spreco di risorse. Invece, una struttura splendida, efficiente, pulitissima, ecosostenibile, che lavora a pieno regime salvando vite, formando personale qualificato, creando cultura sanitaria ma anche cultura di solidarietà e di pace.
Non posso quindi perdermi la visita del cantiere dell’ospedale pediatrico di Port Sudan, a pochi minuti di taxi dalla città. Lì il responsabile dei lavori ci spiega il progetto, illustrandoci anche alcune interessanti soluzioni architettoniche (ad esempio i badgir, sistemi di ventilazione di origine persiana, che permettono di abbassare sensibilmente e in modo naturale la temperatura interna) e ci presenta l’ingegnere capo del progetto: sudanese, giovane, competente e soprattutto donna!
Risulta già evidente dallo “scheletro” lo stile dell’architetto Pantaleo, analogo a quello del Salam: una struttura estremamente essenziale, minimalista, ma di grande impatto estetico, integrata con le aree verdi che sorgeranno intorno, sorta di oasi in una zona estremamente arida e depressa. Ci sarà anche un campo sportivo, inteso come centro di aggregazione e svago della comunità che vive nei dintorni. E soprattutto, fra poco arriveranno moltissimi bambini, ai quali verrà data una possibilità in più per riuscire a diventare adulti.
Ultima formalità, la sosta al Cairo prima del volo di rientro: ovviamente, hotel a Heliopolis, vicino all’aeroporto e lontano dal “pericolosissimo” centro città. Altrettanto ovviamente, nessuna intenzione di rimanere segregati nel ghetto di lusso: propongo di cenare al Felfela, ristorante celeberrimo fra backpackers e viaggiatori di Avventure nel Mondo, e quasi tutto il gruppo si aggrega, stipato in un improbabile pulmino ricco di storia e di ammaccature. Scopriamo nell’arrivare che siamo a pochi passi da piazza Tahrir, cuore della rivolta egiziana, e vediamo parecchio movimento, che ci incuriosisce un bel po’. Per nulla al mondo avrei rinunciato ad andare a vedere la rivoluzione in diretta: subito dopo cena mi precipito in piazza insieme ai miei compagni socotrini, tutti ansiosi di recuperare almeno un po’ dell’avventura perduta.
All’inizio siamo titubanti e teniamo le macchine fotografiche nascoste; poi, emozionati e commossi dall’entusiasmo della gente, che si accalca per riuscire a parlarci, salutarci, raccontare, incominciamo a comunicare e fotografare liberamente.
Ragazzini con i colori nazionali dipinti in viso, un signore attempato che ci mostra orgogliosissimo la sua foto sulla prima pagina di un quotidiano mentre manifesta contro il Faraone e che poi ci tiene un comizio in arabo, tradotto in simultanea da volenterosi studenti; cartelli con scritte indecifrabili, bandiere dappertutto: clima di festa e di speranza, assolutamente contagioso anche per noi, che ci sentiamo partecipi di un grande momento storico.
Con grande gentilezza poi ci chiedono di andarcene perché la piazza a mezzanotte dev’essere sgomberata, pregandoci però di tornare il giorno dopo e chiedendoci di pubblicare le foto su facebook; purtroppo dobbiamo partire e ci manca almeno una giornata in più per scatenare le Nikon e respirare pienamente l’aria euforica del Cairo.
Torniamo a casa: non abbiamo riempito la valigia di souvenirs pacchiani, inutili magliette o illecite conchiglie, ma riportiamo indimenticabili emozioni, qualche scatto interessante e splendidi ricordi. Abbiamo lasciato, come si conviene ai veri viaggiatori, solo le impronte dei nostri piedi, le scie delle nostre bolle e un pezzettino del nostro cuore.