Buenos Aires, Plaza de Mayo, un qualunque giovedì pomeriggio degli ultimi trent’anni: le madri dei desaparecidos sfilano in corteo davanti alla Casa Rosada, il palazzo presidenziale, chiedendo giustizia per i propri figli. Portano cartelli con foto di ragazzi e ragazze, congelati dalla scomparsa in un’eterna giovinezza fine anni Settanta: barbe e capelli lunghi, aria da studenti universitari dell’epoca della contestazione. Mi emozionano e mi commuovono il coraggio e la tenacia con cui continuano a non arrendersi; mi chiedo se la lotta politica sia diventata per loro il modo per affrontare un dolore che non trova pace.
Ma per una di quelle coincidenze casuali che la magia del viaggio spesso ci offre, questo giovedì è anche l’Otto Marzo e all’improvviso mi trovo catapultata in mezzo alle manifestazioni delle donne: studentesse, giovani madri con figli, signore più attempate unite nella protesta per il diritto all’aborto. Provo un vago disorientamento, come se una macchina del tempo mi avesse riportata indietro di decenni: le dittature in Sudamerica, il femminismo militante. Mi immergo con piacere e solidarietà in questo fiume pacifico di persone, augurandomi che sia vicino il momento in cui le loro richieste saranno diventate conquiste.